diario estemporaneo di un viaggio solitario. 3° parte

27 Agosto, 2021

Questa mattina ho percorso, con indefesso coraggio che voglio venga messo agli atti, i corridoi lunghi e stretti (e anche un po’ bui di notte) dell’albergo, autoproclamandomi una sopravvissuta una volta arrivata in ascensore.
Mi avevano assicurato che la porta della terrazza sarebbe stata aperta ma con una premessa del genere il proseguo della frase può essere solo uno: ma non era così.
Porta chiusa, sbarrata e terrazza in ostentata bellezza nella sua solitudine davanti a me.

Piano 0.
Oltre all’indefesso coraggio nel riuscire a camminare di notte in un albergo e alla risolutezza nelle scelte, mi riconosco anche una certa dose di determinazione e tenacia che qualcuno oserebbe definire cocciutaggine o testardaggine.
Credo che il concierge questa mattina vedendomi arrivare alle 5:30 del mattino e dopo il nostro scambio non sarà stato così generoso nei miei confronti.
Adesso vi racconto il nostro dialogo e badate bene che tutto quello che troverete scritto tra parentesi è quello che non è stato pronunciato ma era nell’aria.

“Mi scusi concierge, sono quella della 147, ex-135, quella che ha chiamato alle 3 due giorni fa e la stessa che ieri ha chiamato per chiedere il permesso di farsi portare l’asporto dall’indiano violando l’etichetta del vostro albergo (già violato 24 ore prima prendendo un tortino dalla sala colazioni)”
“Buongiorno, mi di(c)a (c)ome posso aiutarla (maremma impestata è an(c)ora lei)”
“Sa, sono andata in terrazza passando dalla strada che mi era stata suggerita dal suo collega che, comprendendo perfettamente il mio bisogno e piacere di scrivere con il sole nascente, mi ha spiegato che quella porta sarebbe rimasta sempre aperta, ma così non è questa mattina. Per cui le chiedo se gentilmente potrebbe aprirmi la porta”
“Mi sembra strano che le abbia detto (c)osì il mio collega, la porta è sempre (c)hiusa di notte e io non ho le (c)hiavi. Le hanno quelli (c)he lavorano in (c)ucina e (c)he sono già là a preparare le (c)olazioni”
“Perfetto! Allora può provare a chiamarli e a farmi aprire (dai bellino che un modo lo troviamo)”
“Mi dispiace ma non posso (c)hiamare (maremma ciu(c)a, ma questa l’è una bella molletta nei testi(c)oli)”
“Capisco perfettamente, ma sa, faccio la scrittrice nella vita (ego perdona l’abuso che faccio di te ora) e nulla mi concilia la scrittura come la vostra terrazza, unica nel suo genere, con una ventola che sostiene il ritmo della tastiera, le cupole che mi fanno compagnia e le zanzare che mi mangiano, io amo farmi mangiare dalle zanzare sa?”
“Va bene, provo a (c)hiamare. […….] Non risponde nessuno (almeno ora la finisce)”
“Mhh, mi faccia pensare, alla terrazza si accede anche delle scale. Bhè potrei provare a passare da là (è inutile che mi guardi con quello sguardo annoiato, perchè tanto un modo lo troviamo). Allora posso provare a passare da là, se poi è aperto bene, sennò torno e cerchiamo un’altra soluzione (eccome se torno). Ad esempio non esiste un passaggio per voi che lavorate e non potrebbe accompagnarmi qualcuno?”
“Aspetta un attimo qua, (c)he vado a parlare (c)on un mio (c)ollega e vediamo se può a(c)(c)ompagnarti (maremma salama te e la terrazza. Adesso ti portiamo e ti (c)hiudiamo fuori)”
“Oh un fattorino che consegna il pane. Mi scusi, lei sta andando in cucina, no perchè sa blablabla e la terrazza e blablabla posso venire in cucina con lei blablabla che Dio la benedica. Conciergee, ho trovato la soluzione, mi accompagna il fornaio, guardi che gentile ha detto che ci pensa lui (lo vedi porca zozza che era tanto facile!)”
“Ma (c)ome il fornaio? Ma no no, fermi tutti, ma non puoi mi(c)a andare (c)on lui. Viene (c)on te il mio (c)ollega (maremma terrazza, vedi di levarti da qui (c)he sennò ti (c)ambio di nuovo la (c)amera e ti mando in una senza (c)o(c)a (c)ola, senza vas(c)a e senza telefono)”
“Evviva!! (te l’avevo detto che tanto riuscivo) Grazie, grazie infinite, lei ha un cuore grandissimo e io le sono profondamente grata”
E così siamo stati in 3 nell’ascensore di servizio, io, il fornaio, il collega che mi guardava torvo e una busta gigante di pane tra noi.
Sono in terrazza e la porta che dalle scale conduce in terrazza è aperta.
Per cui la morale è: se sei avvezzo allo sport e preferisci fare 5 piani a piedi piuttosto che con l’ascensore manterrai profonde e buone relazioni con il concierge.

Ora riavvolgiamo il nastro di qualche ora e torniamo a ieri.

Sono andata in Chiesa e ho pronunciato le parole magiche che fanno saltare file chilometriche: “devo andare a Messa”.
Senza campanelli alla caviglia, sono entrata e mi sono seduta da una parte, dove ho letto sempre il mio libro.
Tra i tanti libri che ho con me in questi giorni, avrei potuto portare un libro sull’evoluzione umana, oppure un altro di economia, o ancora il dizionario dei comportamenti del lattante.
Ma no, io mi sono portata un libro contro la violenza inflitta ai bambini, dove veniva riportata una frase del Vecchio Testamento dove sembra che i genitori vengano incoraggiati a picchiare i bambini.
E mentre leggo penso alle tante storie che ho raccolto di bambini cresciuti con le suore o in convitti gestiti da ordini religiosi e le tante violenze che i bambini che li frequentavano hanno vissuto, quando poi il prete dichiara “gli ipocriti subiranno castighi e bruceranno all’inferno” decido di attendere la fine della Messa per andarci a parlare.
Mi immaginavo già di condurre un’intervista burrascosa sul filo del rasoio, tra la pedagogista che vuole salvare tutti i bambini (ma molesta i concierge) e un prete cattivo che invece sostiene che la verga li raddrizza e che due fustigate al giorno con un crocefisso rovente sono cosa buona e giusta.
Attendo la fine della Messa e corro incontro al prete che dopo aver finto per i primi 20 metri che io non ci fossi mi dice che devo andarmi a confessare (credo fosse il cugino buono del concierge già avvisato sul mio conto).
Accetto la proposta e mi metto in fila.
Sono carica, sto in ginocchio come tutti e ho preparato già le domande.
Tocca a me, mi siedo davanti a don Andrea.
Spiego che sono una pedagogista e mi volevo confrontare con lui riguardo l’educazione dei bambini e come la sua religione si esprime a proposito.
Don Andrea parte così:
“Guarda non so nulla dei bambini però ti racconto questa (c)osa (c)e mi è rimasta sempre impressa.
Avevo 10 anni, la mi mamma mi dette 10 lire per andare dal pizzi(c)agnolo a (c)omprare due etti di mortadella di Bologna e io andai.
Quando mi diede il resto sbagliò, e mi diede dei soldi in più.
Io ero (c)ontento (c)e lui si fosse sbagliato si(c)(c)hè tornai a (c)asa dalla mi mamma.
Quando lei (c)ontò i soldi e vide (c)he erano sbagliati mi disse di tornare immediatamente indietro e restituire a parte in più.
E quindi e(c)(c)o (c)osa ti posso dire di pedagogia, (c)he i valori sono importanti.
Ma te devi leggere un bellissimo libro di sant’agostino il de…%&:.. &%$£bus”
“Come scusa?!)
“Ma (c)ome non lo (c)onosci, è la sua opera più importante!! Si (c)hiama il de…%&:.. &%$£bus”
“Ah bhè certo, sì è molto chiaro. Allora la ringrazio, arrivederci”
“Ciao, leggilo eh! È bellissimo il de…%&:.. &%$£bus”
Ho impiegato un’ora di ricerca per trovarlo il nome giusto che è il de…%&:.. &%$£bus.
Scherzo… si chiama De catechizandis rudibus.
E per non inemicarmi altre divinità mi toccherà leggerlo, anche perchè la storia del piccolo Andrea, oltre ad avermi fatto venir voglia di mortadella, non può venir sprecata.
Vi risparmio la fatica di cercarlo ed eccolo qua, faremo un gruppo online di lettura chiamato “il de…%&:.. &%$£bus” e l’attestato di partecipazione verrà stampato su una fetta di mortazza di Bologna, seguitemi per essere aggiornati sull’apertura delle iscrizioni.

Poi ho rischiato di morire guidando per 6 chilometri un monopattino elettrico per scoprire che il posto che volevo visitare, la piccola farmacia letteraria, era chiusa per ferie.
Ho mangiato indiano, ho lavorato un po’, nessun coito ha interrotto le consulenze e io ho deciso che mi sarei potuta regalare una bella dormita pomeridiana perchè poi mi attendeva un pomeriggio impegnativo: avevo della vita sociale ad attendermi.

Delle ragazze che avevano letto della mia permanenza a Firenze, mi avevano contattata per conoscerci dal vivo.
E così è andata che ho incontrato delle groupies, come le chiama Michele, scoprendo che non solo è stato bello accettare l’invito ma mi sono anche divertita.
Nella mia idea originale infatti, sarei stata con loro un’oretta, il tempo di un thè e poi ciao ognuno a casa sua, perchè a me piace molto stare sola.
Negli anni ho avuto molte persone che mi hanno avvicinata per interessi e rendiconti personali, perchè sono stata ferita e tradita nella fiducia da molte di queste, vivendo una sorta di sciacallaggio e quindi ho imparato a schermarmi e difendermi, a tenere delle buone protezioni tra me e il mondo che attiro con il lavoro che faccio.
Loro già sanno, per questo mi esprimo senza troppi peli sulla lingua.
Però non sanno che è stato importante buttare giù questa barriera, che è stato utile riconoscere che posso concedermi di più senza timori.
Così ci siamo talmente rilassate che oltre ad aprirci abbiamo iniziato ad aprire bottiglie di vino e vi consiglio di andare da Enoteca Bruni, una meraviglia assoluta.
E dopo aver parlato di cose che non posso rivelare perchè sono segreti internazionali e rischieremmo tutte la vita divulgandoli, dopo aver deciso che la prossima tappa sarà Napoli perchè mi hanno raccontato cose meravigliose e io con una certa dose di vergogna ammetto qui pubblicamente che non ci sono mai stata, dopo aver deciso che il prossimo dramma dell’uovo sarà a Procida, dopo aver mangiato cibo divino e essermi fatta fare un trattamento rilassante da una delle figlie di Francesca, dopo tutto questo ho passato un fine serata sola, tra coppie che si abbracciavano e baciavano davanti agli Uffizi, mentre un ragazzo, sicuramente un emissario divino suonava la chitarra, tra tutta questa poesia io posso affermare con certezza che mi sono trovata all’appuntamento romantico che mi ero data.
Ero lì, tra tutti, mi sono vista, abbracciata e amata.

Quanto bisogno di conforto
e cullare di anime
prossime agli adii.

È un eterno tornare
al due che chi ha generati.
Due cuori a generarci, due cuori a batter per mesi
e scandir il lavorio delle nostre cellule.

Tutti immersi nel grande
liquido amniotico dell’universo siamo noi.

Nostalgia che ci accoglie e
che ci strappa al futuro
delle infinite possibilità.

Concedimi la forza dell’uno
e fammi frinire come una cicala
che gode del suo canto
e della sorella estate
che l’abbraccia e avvolge
con raggi bollenti
senza mai toccarla nè scottarla.

Fammi esser ape
che nel mile tinge le sue operosità
sempre,
ragionevoli e sagge.

Rendimi conchiglia
che se anche sbattuta
e sconvolta dalle correnti e tumulti abissali
sempre canta voci di onde
delicate e quieti.

Dammi la forza dell’uno
che tra gli altri numeri sempre
è esposto e solo, ma coraggioso e apri fila.

Saprò io,
averne cura e raccontare tutto
con inchiostri e ricami di capelli e ciglia,
finchè al ritmo degli astri,
saprò danzare
e tra tanti ritrovarmi sempre
con rinnovata tenerezza e commozione.

ps: non mi sono scordata del senso di colpa rimasto in sospeso. Ho un lungo viaggio di ritorno in treno ad attendermi e credo proprio che sarà il luogo perfetto per scriverlo.

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